CHIESA MADRE

06 Chiesa Madre 01 picc

La Matrice è intitolata a Santa Maria Maggiore e prospetta nella piazza principale del paese, facendo da contrappunto al settecentesco collegio di Maria che si eleva di fronte. La fondazione della chiesa può farsi risalire all’inizio del Trecento, negli anni in cui era signore di Geraci Francesco I Ventimiglia, infatti nelle decime relative al 1308-1310 della diocesi di Messina, a cui apparteneva il centro, figura il «Presbiter Nicolaus grecus rector ecclesie S. Marie de Geracio».

A questa fase temporale è ascrivibile il portale principale a ghiere ogivali, raggruppate in tre archivolti, due dei quali continuano nei piedritti laterali, mentre quello più esterno, sporgente dal filo della parete, poggia su peducci pensili; alla sommità della ghiera intermedia è posto uno stemma araldico, non decifrabile per via dell’erosione.

La facciata è stata rimaneggiata a seguito dei terremoti degli anni 1818-1819 che resero necessari vari lavori di consolidamento e la ricostruzione del campanile, concluso da una guglia in mattoni maiolicati a colori vivaci che compongono un disegno geometrico risalente al 1844; gli altri elementi neogotici della facciata, quali l’arco ogivale alla sommità, la bifora e il rosone sono invece stati aggiunti nel 1938.

L’interno della chiesa è a tre navate, affiancate da cappelle laterali e delimitate da arcate a sesto acuto su massicci pilastri, in parte ripristinate dal restauro degli anni 1966-1969 che ha riportato l’edificio alla facies medievale, compromessa in età barocca. Le arcate originali possono riconoscersi nelle due campate contigue ai pilastri dell’arco trasversale della navata, che presentano degli smussi angolari conclusi da una sottile voluta; tra i particolari decorativi riconducibili all’età medievale vi sono pure le due teste di bue dalle grandi narici, oggi rimontate nei piloni dell’arco del coro. Come in molti edifici medievali il cantiere ebbe una durata secolare, tanto che venne consacrato solo il 16 agosto 1495, quando divenne sede parrocchiale al posto dell’antica chiesa di San Giuliano.

La chiesa dovette mantenere l’assetto originario fino ai primi decenni del Seicento, quando a partire dall’esigenza di adeguare l’area presbiterale ai dettami del Concilio di Trento si colse l’occasione per un complessivo rinnovamento, che previde l’ampliamento delle navate laterali, l’aggiunta delle cappelle e una nuova copertura con imponenti volte a botte in muratura; i lavori d’ammodernamento della chiesa furono avviati nel  1626 e durarono circa trenta anni, sotto ben quattro arcipreti (don Nicola e don Gregorio Giaconia, don Giovanni Battista Notarerrigo, don Mariano Fraxiano) e furono affidati ad Antonio Gambaro, un maestro di comprovata esperienza proveniente dalla vicina Castelbuono, dove si era formato nei cantieri diretti dal padre, il genovese Nicolino Gambaro.

Questo assetto architettonico maestoso, affidato alla gerarchia spaziale tra navate e cappelle, alle coperture voltate e ai numerosi affreschi che decoravano le pareti, perdurò fino al tardo Settecento, quando si avvertì l’esigenza di dare un aspetto unitario all’interno chiesastico, ricoprendo tutte le superfici con una decorazione a stucco aggiornata al linguaggio stilistico del tempo; l’arciprete don Nicola Silvestri ne commissionò il progetto all’architetto Gandolfo Felice Bongiorno, proveniente dalla vicina Gangi, mentre l’esecuzione venne affidata allo stuccatore di Motta d’Affermo Francesco Lo Cascio. Tali stucchi tardo barocchi sono stati rimossi con il restauro alla fine degli anni Sessanta, mentre sono ancora visibili nelle cappelle.

  • Tra le numerose opere d’arte custodite nella chiesa si richiama l’attenzione sulla Madonna della Mercede posta nella nicchia all’inizio della navata destra; la scultura gaginiana è databile ai primi decenni del XVI secolo e poggia su una base ottagonale dove sono scolpiti la Resurrezione, due cherubini e i committenti in preghiera con il loro stemma araldico. Da un’altra opera sembra provenire la predella con Gesù e gli Apostoli montata alla base della nicchia.
  • Nella prima cappella dello stesso lato è posto il fonte battesimale, riferibile alla prima metà del XVI secolo; per la complessità iconografica è uno degli esempi più interessanti del territorio madonita, poiché presenta alla base quattro figure di sfingi con ali di drago che si alternano a mascheroni, mentre nella vasca sono inseriti i rilievi del Battesimo di Cristo, la Madonna con il Bambino e l’Agnello dell’Apocalisse.

Segue la cappella della Madonna del Rosario, che riporta la data 1788 nel cartiglio sommitale sostenuto dai puttini; qui l’apparato ornamentale in stucco si integra perfettamente con le pitture, tra cui il quadro della Vergine del Rosario di Domenico Ferrandino (1766) e i quadretti lobati dei Misteri posti ai lati dell’altare, che è definito da paraste corinzie ruotate e da un timpano spezzato.

Tutte le cappelle sono accomunate da una sottile decorazione a motivi vegetali entro riquadri geometrici, mentre si differenzia nettamente quella del Purgatorio (la terza della navata destra), non solo per gli inserti affrescati con le anime purganti, ma anche per l’accentuata plasticità degli stucchi e per l’uso di un repertorio ornamentale che si rifà alle opere di apprezzate famiglie di stuccatori, quali i Ferraro da Giuliana o i Li Volsi da Tusa. Folte ghirlande sottolineano le lunette della volta e quella centrale che contorna la figura del Dio Padre benedicente, mentre due colonne tortili che reggono una trabeazione con fioroni e maschere delimitato l’altare; qui è sistemata la tela della SS. Trinità, riconducibile, almeno nella parte centrale, alla mano del colto pittore Giuseppe Salerno, noto come lo di Zoppo di Gangi. Nell’articolata composizione, Dio Padre regge il Figlio morto, alla presenza dello Spirito Santo sotto forma di colomba.

  • Superata la cappella dedicata a San Giuseppe (la statua è del 1771 ca.), si giunge al fondo della navata, dove è posta la pregevole tela dell’Annunciazione; l’opera proviene dal priorato di Santa Maria nel bosco Cava e fu trasferita in Matrice nel 1837. Essa presenta una straordinaria somiglianza con quella di analogo soggetto dipinta dal celebre pittore e trattatista Giorgio Vasari per la chiesa di Santa Maria Novella ad Arezzo, oggi custodita al Louvre (Parigi); simile infatti appare l’impostazione iconografica con la Vergine in preghiera e l’angelo inginocchiato, nonché l’ambientazione (la sala con la finestra a timpano curvo e la tenda dell’alcova). Pertanto la tela di Geraci, la cui iconografia esula dal contesto siciliano, è stata attribuita a Japoco Chimenti da Empoli (1551-1640), pittore di spicco della Firenze del tempo, che eseguì diverse copie delle opere vasariane e di Andrea del Sarto, e può essere datata intorno al 1580.
  • Gli stalli del coro ligneo dell’altare principale sono stati realizzati dall’intagliatore di Mistretta Antonino de Occurre nel 1644, al tempo dell’arciprete don Giovanni Battista Notarerrigo, mentre nel 1650 su iniziativa don Mariano Fraxano vennero dipinti gli schienali con scene della vita della Vergine.
  • Sull’arco di trionfo pende un Crocifisso ligneo della metà del Seicento, proveniente dalla chiesa di San Francesco, che nella particolare resa veristica dei particolari anatomici mostra l’adesione agli schemi della Controriforma; l’organo, collocato in origine sopra la porta d’ingresso, risale al 1765 e venne realizzato da Giacomo Andronico, appartenete a una nota famiglia di organari.

Nella navata sinistra, oltre alle statue lignee dell’Immacolata Concezione (1687-88), di San Pietro (ante 1693) e di Santa Lucia, nella cappella centrale vi è la scultura in marmo della Madonna della Neve; l’opera conserva ancora tracce del colore blu originario nella parte interna del manto e delle decorazioni floreali dorate ed è posta su una base ottagonale che presenta il Cristo risorto al centro, due testine di cherubini e ai lati lo stemma del committente (da identificare con Giovanni III Ventimiglia) e dell’Universitas di Geraci; la statua è riconducibile alla bottega dei Gagini e può essere datata al terzo quarto del XVI secolo (post 1561).

Nella cripta della chiesa è esposto il cosiddetto “tesoro”, che raccoglie oggetti di oreficeria e argenteria utilizzati per le liturgie sacre provenienti da varie chiese locali; tali opere sono state studiate dalla professoressa Maria Concetta Di Natale, che ne ha curato l’esposizione con criteri scientifici. Tra i pezzi più interessanti si segnala il trecentesco reliquiario di provenienza toscana di San Bartolomeo, con smalti e teca in cristallo di rocca; l’opera fu commissionata dal conte Francesco Ventimiglia all’orafo Piero, figlio di Martino da Pisa, e reca la seguente iscrizione: hoc opus fecit fieri magnificus et potens dominus dominus francischus de vigintimilia comes. hoc opus fodit pirus martini de pisis.

Oltre alla serie di calici “madoniti”, riconoscibili dalle foglie di cardo sotto la coppa (tutti dell’inizio del XVI secolo), è poi presente un reliquiario architettonico di tipo gotico flamboyant; esso ha una base polilobata, un doppio nodo formato dalla successione di bifore e una teca per le reliquie con arcate cuspidate e interposte numerose guglie e pinnacoli, mentre il vertice è occupato dalla figura di San Bartolomeo, patrono di Geraci, e ancora sopra la Madonna col Bambino. La custodia è riferibile alla prima metà del XVI secolo ed è stata realizzata da un argentiere palermitano, come rivela il marchio della maestranza.

Alla stessa alla cultura tardogotica appartiene il pregevole crocifisso ligneo ritrovato nei pressi del castello e oggi custodito negli stessi locali del “tesoro”; l’opera, riferibile a uno scultore iberico, è databile alla metà del Quattrocento e mostra una sagoma allungata, leggermente flessa a sinistra, con perizoma a gonnellino a pieghe fluenti, da cui si distacca il volto che invece rivela un’espressione serena, più vicina alla sensibilità umanistica.

  • Accano a questa scultura è inoltre visibile una lastra sepolcrale in pietra bianca del primi decenni del XVI secolo, la cui raffinata fattura con sfingi alate suggerisce un committente colto, sebbene l’iscrizione nel cartiglio è stata abrasa.